Edoardo Vesentini

Scritto di Edoardo Vesentini

Discorso pronunciato in occasione della inaugurazione del “Fondo Sce”
presso la Biblioteca Labronica “Domenico Guerrazzi”.

Ringrazio la Biblioteca Labronica per questo invito, e Paola Sce per averlo provocato: invito che mi offre la possibilità di saldare un debito di affetto, ricordando una persona cara ed un’antica amicizia.

Preparando questo breve intervento, ho voluto frugare nell’archivio della Scuola Normale Superiore di Pisa. Un estratto degli atti di nascita del comune di Tirano ci ricorda che “alle ore due e minuti zero del dì ventisette ottobre dell’anno [1929]” è nato un bambino di sesso maschile, a cui vengono dati i nomi di Michele Giuseppe Pietro. Comincia così, come accade a tutti, la storia di Michele Sce.

Poi, l’arrivo a Livorno, la scuola, l’università. L’università è l’Università di Pisa, dove il 28 febbraio 1951, Michele si laurea, con lode, in Scienze Matematiche, e, pochi mesi più tardi, vince una borsa di perfezionamento presso la Scuola Normale, avviandosi così sulla strada della carriera nell’università e nella ricerca scientifica.

Ma, visto oggi, il cammino si rivela molto più tortuoso di quanto quei primi passi potessero far prevedere. Già le prime scelte di Michele nel campo degli studi e della ricerca rivelano subito una irriducibile insofferenza verso le mode e le correnti dominanti. E questo atteggiamento, in ambienti provinciali come erano in quegli anni (e sono ancora, in qualche misura) i circoli scientifici italiani, non gli avrebbe certo facilitato il cammino. Michele si allontana ben presto dai temi tradizionali della scuola di geometria algebrica italiana; coglie forse, nella letteratura internazionale, le riserve sui fondamenti di quella scuola, e si dedica in solitudine a studi di algebra (e, più in particolare, di teoria delle matrici) assai poco popolari da noi in quegli anni ma eredi di una nobile tradizione, rappresentata da Albert, da Jacobson, da Siegel e – qui in Italia – da Gaetano Scorza, Alfredo Capelli e Salvatore Cherubino.

Studi rivelatisi di grande importanza per la matematica del futuro e per le applicazioni. 
Coltivando questi interessi scientifici, l’anno successivo al perfezionamento nella Scuola Normale, Sce vince una borsa di studio presso l’Istituto Nazionale di Alta Matematica, a Roma. Là insegna Fabio Conforto, che si occupa di matrici di Riemann: un tema classico, a quel tempo al centro degli interessi di Sce. Purtroppo Conforto muore pochi mesi dopo l’arrivo di Michele e questi si trova di nuovo isolato, pur potendo contare sull’appoggio autorevole e generoso di Beniamino Segre.

È stato allora, nell’anno accademico 1952/53 che ho incontrato Sce, ed è nata una amicizia destinata a durare, che si è presto allargata ad un piccolo gruppo di giovani matematici: Carlo Pucci, Gianfranco Capriz, Lucio Lombardo Radice, …. Un’amicizia fra noi, forte, duratura, modellata tuttavia sul carattere di Michele, che offriva all’amicizia una partecipazione intensa e allo stesso tempo riservata. Un’amicizia “sotto tono”, schiva, ma intellettualmente vivace, un’amicizia fatta di cene (Sce era ghiotto), di cinema, di lunghe passeggiate e discussioni appassionate e interminabili, ma, fra me e lui, soprattutto di letture in comune. Ho sempre amato i libri, ma Michele ha molto allargato il mio orizzonte facendomi apparire la lettura come un fatto condivisibile, sul quale confrontarsi.

La passione per i libri aveva per Michele un carattere addirittura irrazionale. L’attenzione per la carta stampata, per i vari problemi di conservazione e di catalogazione era, per Michele, un adempimento prioritario. Nei cataloghi cartacei della biblioteca della Scuola Normale esistono ancora delle schede redatte da Sce, e dalla biblioteca del Dipartimento di Matematica dell’Università di Milano egli si è occupato fino agli ultimi giorni.

Concluso l’anno accademico 1952/53 a Roma, avrei ritrovato Sce a Milano, dove lavoravo già da qualche anno nel Politecnico, e Michele sarebbe diventato, per concorso, assistente di Geometria all’Università.

L’ambiente che l’attendeva, dominato dalla figura del professore titolare, Oscar Chisini, era molto diverso da quello romano, più chiuso e forse ancora più provinciale, apparentemente lontanissimo dagli interessi culturali di Sce. Il quale tuttavia, con mia sorpresa, vi si inserì con grande naturalezza stabilendo anche là, con gli allievi di Chisini, con Modesto Dedò, con Ermanno Marchionna, con Cesarina Tibiletti, …, un rapporto di amicizia che sarebbe durato negli anni.

A quel punto il percorso successivo della vita di Michele poteva dirsi ormai segnato, scandito in tappe accademiche chiaramente prevedibili. Sembrava più che naturale identificare, in un censimento universale, una casella riempita da “Michele Sce, matematico”.

Non fu così. Di fatto, si potrebbe dire oggi che Michele dovrebbe occupare più caselle, oppure – che è lo stesso – non dovrebbe occuparne nessuna, secondo il destino, destino privilegiato, degli uomini di pensiero, che sono tali nella misura in cui sono e restano dei dilettanti, ossia l’opposto dei professionisti: matematici di professione, fisici di professione, biologi di professione, filosofi di professione, …, intellettuali di professione.

D’altra parte, anche questa immagine di Michele Sce è riduttiva e trascura una parte considerevole della sua vicenda umana. Professore universitario in varie sedi, e – fuori della sua professione – apparentemente consegnato ad una cultura libresca, come può apparire, dal luogo dove ci troviamo oggi, ed apparentemente inadatto ad impegni manageriali concreti, Sce non esitò ad assumere responsabilità manageriali pesanti ed ingrate. Membro del Comitato Nazionale per la Matematica del consiglio Nazionale delle Ricerche, Sce accettò negli anni settanta la direzione dell’Istituto per le applicazioni del Calcolo, uno dei più importanti istituti di ricerca del CNR, fondato nei primi anni venti da Mauro Picone e che, a torto o a ragione, aveva rappresentato, per molti decenni il paradigma della ricerca matematica applicata in Italia.

Erano quelli i primi anni nei quali, dopo le esperienze pionieristiche di Von Neumann, di Ulam, dello stesso Fermi, erano finalmente disponibili in Italia i primi strumenti di calcolo elettronico. Tuttavia l’Istituto per le applicazioni del Calcolo, arroccato sui temi tradizionale della ricerca matematica italiana, sembrava poco disponibile ad attrezzarsi adeguatamente dei nuovi strumenti e ad aggiornare i propri programmi di lavoro coerentemente con le prospettive di ricerca che si profilavano all’orizzonte. In questa situazione quasi nessuno si sarebbe aspettato che Sce fosse disponibile ad assumere un incarico così ingrato e condannato all’impopolarità negli ambienti accademici più tradizionalisti. Michele non esitò a farsene carico e riuscì a traghettare l’Istituto ad una posizione dalla quale fu meno arduo, per chi gli succedette nella direzione, avviare un effettivo progetto di rinnovamento, pur nelle remore delle incertezze che caratterizzano il modus operandi del Consiglio Nazionale delle Ricerche.

Ma il “germe dell’informatica”, la percezione dei problemi nuovi posti nella ricerca fondamentale, e delle possibilità applicative offerte dagli strumenti dell’elettronica, avevano contaminato lo Sce. Con quella spregiudicatezza intellettuale che guidava le sue scelte e non ammetteva mezze misure, egli decise allora di dedicarsi alla “nuova scienza” ed alle sue prime applicazioni. Lo fece senza esitazioni e con una dedizione totale, lasciando l’insegnamento universitario e correndo una serie di avventure scientifiche e, in qualche misura, manageriali.

A quanto mi parve di capire e mi sembra di ricordare, ne restò deluso. E questa mia impressione è corroborata dalla sua decisione di tornare all’insegnamento universitario alcuni anni più tardi.

Fu, peraltro, una decisione non facile, che accentuò la sua “solitudine accademica”, ma che, in un certo senso, parve ringiovanirlo facendogli ripercorrere le tappe iniziali della sua carriera universitaria. Mi capitò, in quegli anni, di incontrarlo a Lecce, chiamato sulla cattedra di Geometria dell’Università, sistemato in una camera ammobiliata vicina a piazza Sant’Oronzo – disordinatamente piena alla rinfusa, di libri, di carte, di biancheria – del tutto assimilabile a quella dove abitava a Roma, quando era borsista dell’Istituto Nazionale di Alta Matematica. Poi ritornò a Milano dove ritrovò gli amici di un tempo, la Tibiletti, Marchionna, Gasapina, … e dove – pochi anni più tardi si è chiuso l’arco della sua vita.