Paola Manacorda Sce

Intervento di Paola Manacorda Sce

Quando, prima dell’estate, il Dottor Moreschi mi ha comunicato che il Dipartimento di Matematica dell’Università intendeva dedicare una giornata commemorativa a mio marito Michele Sce, ho provato, oltre ad una grande emozione, anche un grande stupore, ed ho chiesto ad uno dei miei figli: cosa direbbe Michele di questa giornata in suo ricordo? E lui mi ha subito risposto: Sarebbe molto sorpreso! Si chiederebbe come mai gli viene reso questo omaggio, visto che lui ritiene di non aver fatto niente di particolare, ha solo cercato di fare al meglio il suo lavoro, e non era nemmeno tanto sicuro di esserci riuscito!
E anche io ho avuto la stessa sensazione, e mi sono interrogata su che cosa potesse aver mosso alcune persone che lo avevano conosciuto ad organizzare, con tempo e fatica, questa giornata. Tanto più che Michele non era una persona che ispirasse immediata empatia: era una persona mite, timida, non molto comunicativa, che qualche volta lanciava, a persone che non gli piacevano, anche qualche frecciatina sarcastica. Insomma non era quello che si potrebbe chiamare, a prima vista, un gran compagnone.
Naturalmente io penso che lui meritasse di essere ricordato, ma questo è ovviamente il mio punto di vista molto personale, quello di una persona che gli è stata accanto per 35 anni, e lo penso per molte e fondate ragioni.

Innanzitutto era la persona meno competitiva che abbia mai conosciuto.
Certamente desiderava fare il suo lavoro con dignità e tranquillità, ma già l’idea dei concorsi universitari credo gli fosse difficile da accettare, e questo lo deve avere anche un po’ penalizzato nella sua carriera universitaria, almeno in termini temporali.
Non è mai stato competitivo nemmeno nei miei confronti, anzi mi ha sempre incoraggiato a fare cose nuove ed impegnative, pur sapendo che questo avrebbe diminuito il mio tempo per lui e per la famiglia.

Questa sua mancanza di competitività si accompagnava ad una grande modestia, che arrivava ai limiti dell’autodenigrazione. Quando mi fece leggere la bozza della sua Introduzione al grande Dizionario di Matematica, vi trovai la seguente frase: “Come in ogni enciclopedia, alcune voci sono trattate peggio delle altre”. (!) Era molto consapevole dei suoi limiti, in particolare della sua incerta capacità comunicativa, e temeva che questo penalizzasse i suoi studenti, e più di una volta mi ha detto che si rendeva conto della loro fatica. Di questa preoccupazione lo rassicurò il minore dei nostri figli, che allora era un bambino, dicendogli che era sicuro che fosse un bravo insegnante, visto che sui suoi documenti universitari c’era scritto che era “un professore straordinario”.

Tuttavia la modestia non era insicurezza, perché Michele ha accettato più di una volta di mettersi in gioco in ruoli nuovi e per lui impegnativi. Un ruolo per così dire politico (come membro del Comitato per la Matematica del CNR) ed un ruolo manageriale (come Commissario per l’Istituto per le Applicazioni del Calcolo), ruoli per lui sfidanti, che ha accettato per due motivazioni che lo caratterizzavano: curiosità e senso di responsabilità, che hanno sempre guidato le sue scelte di vita e di lavoro.

Era infatti curioso di tutto ciò che era nuovo e moderno, e a questo si deve la sua scelta di lavorare per alcuni anni alla Olivetti, nei laboratori di ricerca. Intuiva anche che i calcolatori, che all’epoca si pensavano soprattutto adatti a risolvere velocemente massicci problemi di calcolo, potessero essere in grado di influire su alcuni aspetti della matematica, e la ormai celebre dimostrazione via computer del Teorema di Fermat gli ha dato ragione.
Del resto la sua curiosità si rifletteva nella grande varietà di libri (alcune migliaia) che componeva la sua biblioteca personale, dove accanto a libri scientifici erano riflessi i suoi vasti interessi in argomenti come la storia, la letteratura, l’antropologia.

Molte delle sue scelte erano dettate da un grande senso di responsabilità e da un impegno civile. Non solo quelle nei confronti degli studenti, ma in senso più generale. Questo atteggiamento è stato ben ricordato dalla Professoressa Di Sieno, nel suo affettuoso ricordo nella lettera Pristem:
“Sce diceva: Se una cosa deve essere fatta, vale la pena di farla, anche a costo di non farla al meglio”.
Ciò dimostra che nelle sue diverse attività non ricercava vantaggi personali, di prestigio, di potere e meno che mai di tipo economico, ma voleva fare cose che fossero utili agli altri, nel senso più ampio del termine. Non ha svolto in prima persona attività politiche, ma aveva un forte interesse la politica e lo ha attuato nei ruoli a lui più congeniali. Aveva un forte imperativo morale, ed era anche un po’ moralista, in quanto odiava i cialtroni e i profittatori.

Ma, al di là di queste sue apprezzabili caratteristiche, che cosa può aver stimolato gli organizzatori a dedicare tempo ed energie alla sua memoria? Io credo che la caratteristica che, alla lunga, risultava in lui più evidente era una forte generosità, che si esprimeva mettendo a disposizione degli altri non solo la sua intelligenza e la sua sapienza, ma soprattutto il suo tempo e la sua pazienza.
Questo avveniva in particolare verso i suoi studenti, e non sceglieva necessariamente quelli più brillanti, perché diceva che tutti, anche quelli che avevano studiato mettendoci più tempo, avevano diritto ad essere accompagnati nel percorso della tesi e della laurea. Quando, nel 1968, l’accesso alle Università fu aperto anche ai diplomati degli Istituti Tecnici, offrì, insieme ad altri colleghi della Olivetti, un supporto ai diplomati di quell’azienda, per facilitare il loro impegnativo percorso nei corsi universitari.

Forse allora aveva ragione mio figlio quando diceva che era un professore straordinario. Straordinario per generosità e per senso di responsabilità, visto anche che ha continuato a fare lezione finché le forze glielo hanno consentito, e di questa sua dedizione ho avuto ampia testimonianza da molti studenti al momento della sua scomparsa. Il suo ultimo laureato, il Professor Francesco Regonati, ha avuto con lui, negli ultimi tempi della malattia, un rapporto quasi di tipo filiale, andando spesso a trovarlo in ospedale.

E anche questa giornata testimonia che la sua purtroppo breve vita nell’Università ha lasciato qualche segno, almeno nelle persone che sono qui e che hanno organizzato questa giornata.
Io e i miei figli li ringraziamo non solo per questa giornata, che rimarrà per noi memorabile, ma per quello che hanno fatto tanti anni fa, incontrando una persona che come tutte desiderava essere capita ed apprezzata, ma che forse faceva fatica a farlo trapelare. E così facendo queste persone hanno arricchito la sua vita di incontri, amicizie, discussioni fertili, lavoro in comune.
Ed è soprattutto di questo che noi ringraziamo di tutto cuore i suoi amici e colleghi Giuliano Moreschi, Alberto Marini, Stefano Kasangian, Simonetta Di Sieno, Stefania De Stefano, Marco Rigoli, Leonede De Michele, Franco Magri e tutti gli altri che hanno collaborato.
Un ringraziamento particolare va anche ai tre relatori odierni, che recuperando alcune lontane intuizioni di Michele, fanno oggi rivivere e conservare il suo pensiero.
Grazie anche a tutti gli amici e le amiche, miei, di Michele e dei nostri figli, che oggi sono qui a ricordarlo.